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Università una riforma? No, un ko

Ultimo Aggiornamento: 12/05/2009 09:20
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12/05/2009 09:20

L’anno scorso con l’estate giunsero i provvedimenti del ministro Tremonti per l’Università: taglio dei fondi e quasi blocco del turn-over (2 assunzioni ogni 10 pensionamenti). Con l’autunno giunsero le proteste degli studenti e la paura d’un nuovo ‘68. Con l’inverno arrivarono le contromisure. Da un lato la demagogica campagna denigratoria dei politici contro l’Università, basata su magagne e scandalosi casi limite per altro presenti in ogni settore della vita pubblica italiana (quella politica compresa, vedi alla voce «casta»). Dall’altro la riduzione, minima, dei tagli e del turn-over: 5 assunzioni ogni 10 pensionamenti. A inizio 2009 con i rigori dell’inverno giunse un disegno di legge sull’università, per dimostrare che il governo non pensava solo a tagliare. Non risulta che quel testo sia stato oggetto di approfondita discussione nella commissione parlamentare. E tuttavia con l’arrivo della primavera il ministro Gelmini annunciò in tv il varo della riforma. Qualche giorno dopo, altra clamorosa anomalia, prese a circolare un testo (apocrifo? genuino? elaborato nelle stanze ministeriali?) che riscriveva il disegno di legge.

Solo l’Andu, l’associazione dei docenti universitari, dava notizia di tutto ciò, criticando severamente i contenuti della proposta. L’accusa principale è contro la «privatizzazione» dell’Università. È lo stesso tema che da mesi ha in gran parte bloccato l’università francese, con scioperi, cortei, occupazioni (Sorbona compresa) da parte di professori e studenti, che sembra abbiano indotto il Presidente e il ministro francese a rivedere la loro posizione. In Italia i rettori tacciono o approvano, un po’ per non inimicarsi il ministro, un po’ perché il disegno di legge prevede più potere per loro. Il progetto italiano prevede però un’ulteriore mastodontica trasformazione. Il testo è volutamente ambiguo. Sembra voler dire che, all’inglese, le facoltà vadano abolite e che i dipartimenti debbano occuparsi sia di didattica, sia di ricerca. Cosa non difficilmente realizzabile nelle facoltà scientifiche (dove almeno la coincidenza di ambiti di studio già c’è); quasi impossibile in molte delle umanistiche, dove si trovano quasi due terzi degli studenti, a patto di non cambiare tutto perché tutto resti come prima. Tuttavia è anche vero che, all’italiana, come alcuni rettori ritengono, la «riforma» consentirebbe invece l’accorpamento delle facoltà esistenti in «scuole», andando quindi nel senso opposto.

L’università italiana, stravolta dal 3 + 2, costretta a cambiare tutti i corsi di laurea pochi anni fa e costretta a cambiarli nuovamente in questi mesi, è come un pugile messo all’angolo. Questo potrebbe essere il colpo del k.o. finale. Non si capisce quale altro possa essere l’intento della riforma Gelmini, che infatti ben si guarda dall’intervenire davvero sugli «scandali» dell’università. Quello più clamoroso nasceva dai concorsi locali, addomesticati e non con un solo vincitore, bensì con due idonei. Il disegno di legge prevede (come già dice una legge di ben quattro anni fa e mai attuata) che i concorsi siano nazionali; ma stabilisce che non proclamino dei vincitori, bensì degli «abilitati» tra cui le singole università sceglieranno i professori che vogliono. Dopo avere inveito per mesi contro lo «scandalo» degli idonei, si risolve il problema chiamandoli «abilitati»; e si consente alle singole università di rinnovare la «scandalosa» pratica di promuovere solo i propri docenti. Infatti, inevitabilmente, ogni università metterà a bando solo quei posti che potranno essere assegnati agli «abilitati» che ha in casa. La colpa sarà data naturalmente ai baroni; e in prima fila tra gli accusatori ci saranno gli artefici di questo gattopardesco sistema.

Paolo Bertinetti
preside della facoltà di Lingue, Università di Torino

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